#lastjobs: italiani e (s)fiducia nella rappresentanza sindacale
Sondaggi - lunedì 14 Settembre, 2015
Il lavoro della rappresentanza è sempre più complicato. E lo è diventato, seppure in misura diversa, per tutte le forme associative. Nessuna esclusa: dai partiti passando per le associazioni di categorie, fino a quelle più moderne legate alla rete, come dimostrano anche le recenti riflessioni interne a M5S. I partiti sono quelli più in difficoltà: le convulsioni e i cambiamenti iniziati con Tangentopoli non hanno ancora trovato una stabilità. Scissioni (attuate o minacciate), creazioni di correnti e nascita di nuove formazioni sono quasi all’ordine del giorno. Anche le organizzazioni degli interessi non sono escluse. Più dei partiti, hanno un termometro costante nelle relazioni con gli iscritti di cui auscultano la temperatura, i malumori e le attese. Quindi, sono più capaci di conservare una linea diretta con le esigenze della base associativa. Ma anche loro, di fronte alle accelerazioni impresse dai nuovi scenari, faticano a modificare i propri assetti, poiché le strutture organizzative tendono a essere rigide e a rifiutare i cambiamenti.
I sindacati dei lavoratori non sono esenti da questi processi, tutt’altro. La crescente apertura ai mercati internazionali, le nuove divisioni del lavoro su scala globale e le ripetute riforme delle regole del mercato del lavoro li pongono costantemente in tensione. Più spesso sulla difensiva. Meno su posizioni progettuali. I problemi di cui il sindacato dei lavoratori soffre sono noti da tempo. La componente dei pensionati che supera gli attivi fra gli iscritti, la difficoltà a essere presente nei settori in crescita (imprese del terziario e dei servizi), fra le figure professionali non manuali, soprattutto fra le giovani generazioni e le donne: ovvero nei nuovi ambiti produttivi e nelle nuove forze del lavoro. Come se il sindacato riproducesse continuamente la base di rappresentanza originaria, incapace di parlare un linguaggio in grado di intercettare le nuove dinamiche del lavoro e dei mercati. Per dirla con un libro profetico di Bruno Manghi di quasi 40 anni fa, il sindacato “declina crescendo”. Ma al tempo, fine anni ’70, il sindacato godeva di un’ampia schiera di iscritti fra gli attivi e di uno status centrale nella vita nazionale. Oggi quel ruolo appare fortemente appannato e il rischio è che si ponga su un piano inclinato dove “declina calando”. Simbolicamente, prima ancora che numericamente. In altri termini, il problema non è solo o tanto di natura organizzativa, quanto di valore. Di capacità delle organizzazioni sindacali di analizzare, interpretare e narrare le (dis)articolazioni dei lavori. In una parola, di rappresentare le diverse culture dei lavori sviluppatesi negli anni dopo il venire meno della “classe operaia”.
Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa, ha avviato un percorso di ricerca sui temi del lavoro. Dopo aver affrontato nella prima puntata il grado di adesione al Jobs Act del Governo Renzi (27.7), in questa seconda analizziamo qual è il valore del sindacato attribuito dalla popolazione e dai lavoratori. Le organizzazioni sindacali continuano ad avere un ruolo importante in Italia. Chi pensa che senza di esse le cose andrebbero peggio (33,1%) è una quota superiore a quanti lo ritengono un freno (27,0%). Tuttavia, la maggioranza fra gli italiani (39,9%) gli assegna un ruolo ininfluente: il sindacato nulla toglie e nulla dà alla vita del paese. La questione cambia leggermente se consideriamo in particolare i lavoratori dipendenti. Il confronto con un’indagine analoga condotta nel 2008, offre alcuni spunti. Diminuisce in modo significativo (41,1%) chi attribuisce al sindacato un valore di tutela e promozione (era il 51,7% nel 2008). Se comunque consideriamo che la stima di lavoratori sindacalizzati si aggira attorno al 25%, l’area di valutazione positiva di cui gode ancora oggi il sindacato è ben superiore al livello di effettiva adesione. Per contro, però, aumenta il novero di quanti ritengono che senza il sindacato le cose in Italia andrebbero meglio: 22,2% (era il 14,2% nel 2008). Dunque, se nella prevalenza della popolazione il sindacato ha un ruolo sfumato, di scarsa significatività, fra i lavoratori dipendenti – che costituiscono l’area culturale e il bacino di relazione – cresce invece l’avversità. Tant’è che oltre la metà degli interpellati (54,5%, il 47,6% fra gli occupati) non pensa che le organizzazioni sindacali stiano effettivamente tutelando gli interessi dei lavoratori, mentre solo il 17,6% (18,2% fra gli occupati) risponde affermativamente. Fra quest’ultimi, la grande maggioranza ha nei confederali (CGIL-CISL-UIL) il punto di riferimento principale (90,1%). Ma è considerando le risposte negative che emergono aspetti interessanti. Il motivo non è legato all’inutilità del sindacato o, come spesso si afferma, al fatto che difenda i pensionati o chi ha già un lavoro. Semmai, gli viene imputato di non comprendere i cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro (40,1%) e di essere nelle sue dinamiche assimilabile a un partito (41,5%). Quindi, da un lato, l’incapacità di analizzare adeguatamente le trasformazioni del mercato e delle professioni. Aspetto sottolineato soprattutto dai maschi trentenni, dagli imprenditori, da chi risiede nelle aree di piccola imprese (Nord Est) e si dichiara di centro-sinistra. Dall’altro, l’essere schiacciato sulle dinamiche dell’arena politica, perdendo così la propria distintività. Opinione particolarmente condivisa dalle donne, dai più giovani, dagli operai, da chi vive nel Mezzogiorno e non si colloca politicamente.
Difficoltà ad analizzare le metamorfosi del mondo del lavoro e delle imprese, e assimilazione ai soggetti politici sono i virus che minano la credibilità del sindacato. Lo rendono insignificante nella percezione della maggioranza della popolazione e avverso a quote importanti fra gli stessi lavoratori. Ma, nella crescente (dis)articolazione del mondo del lavoro, un declino e una marginalità culturale del sindacato gioverebbe allo sviluppo del paese?
Daniele Marini